Le feste hanno da sempre rappresentato, per le comunità che le celebrano, uno spazio altro, sospeso, in cui il fluire ordinario del tempo si interrompe e la dimensione collettiva si manifesta con più forza che mai. Ma ciò che colpisce, osservando la lunga durata delle rievocazioni storiche, è la loro capacità di resistere, adattarsi, reinventarsi perfino quando le condizioni esterne sembrerebbero renderle impossibili.

Questa sezione della mostra intende raccontare proprio questo: le feste nonostante tutto, ovvero quei momenti straordinari in cui il bisogno di riconoscersi in una tradizione comune ha prevalso sulle difficoltà, facendo della celebrazione non solo un’occasione di svago, ma un atto di resistenza culturale, di coesione civile, di riaffermazione identitaria.

Il 3 maggio 1936, sulle rive del lago di Ascianghi in Etiopia, un gruppo di militari piemontesi della 104ª Legione Camicie Nere organizzò un Palio d’Asti straordinario. La vittoria italiana nella spedizione tra Mai Ceu e Quoram aveva creato un clima di esaltazione e il Palio coloniale fu al tempo stesso nostalgia, rito di legame con la patria e strumento di propaganda. Non c’erano cavalli disponibili, e così la corsa si svolse con asini e muli, spesso bottino di guerra, e fu redatto un regolamento che imitava fedelmente lo statuto originario: batterie, finali, Podestà e capitani che guidavano i rioni. La cronaca apparsa sul settimanale astigiano e il diario del tenente Carlo Traverso restituiscono la scena nei suoi dettagli più vividi: la preparazione degli stalli, la benedizione propiziatoria, l’acquazzone della vigilia percepito come un segno propizio, le scommesse, la borsa di talleri data in premio, le smorfie e le pernacchie per l’ultimo arrivato. Di quel Palio d’Africa si espongono in mostra alcune immagini.

Il drappo del Palio di Ambaciara, cucito e dipinto dai legionari senesi di stanza in Africa durante la guerra coloniale, è un’altra testimonianza eloquente. Alcuni soldati di Siena, nostalgici della loro città, organizzò infatti un Palio straordinario rispettando ogni regola. Alla fine, vinse l’Oca, e il drappo improvvisato, una bandiera dipinta con figure di soldati e scritte commemorative, venne consegnato al comandante Mariotti che lo riportò a Siena, dove oggi è conservato nel museo della Contrada vincitrice. Questo drappo, esposto eccezionalmente in mostra, è una delle testimonianze più preziose di quanto le feste possano sopravvivere in forme nuove e sorprendenti, diventando legame indissolubile con la patria lontana.

Non meno significativo è il manifesto che annuncia l’annullamento della Corsa dei Ceri a Gubbio nel 1916, a causa della Prima Guerra Mondiale. Per la comunità eugubina, che da secoli ogni 15 maggio corre i Ceri in onore di Sant’Ubaldo, la cancellazione per tre anni di seguito della festa fu un trauma profondo. Proprio l’anno successivo all’emanazione del Regio Decreto, sul fronte dolomitico, la festa trovò un’altra via per sopravvivere. Il 15 maggio 1917, sul Col di Lana, teatro di scontri durissimi, alcuni soldati eugubini decisero di celebrare comunque la loro corsa. Costruirono tre ceri con i mezzi di fortuna disponibili, issarono le statue dei santi e si lanciarono lungo i sentieri di montagna, in mezzo al fango e al fuoco.

Le fotografie che documentano quell’evento straordinario ci restituiscono la potenza di un rito che diventa atto di fede e di speranza, testimonianza di come la festa – anche se in questo caso né storica né rievocativa – facesse parte del loro essere. La replica del cero di San Giorgio, che fa parte di questa sezione ed accoglie i visitatori all’entrata del Museo, consente di avvicinarsi concretamente a quell’esperienza. Allo stesso modo, il modello in ceramica della corsa dei Ceri fissa in forma artistica un rito che travalica il tempo e lo spazio: piccola ma eloquente, la scultura riproduce l’energia dei ceraioli, la verticalità dei ceri, il dinamismo della corsa.